"Nella scuola di oggi non c’è più spazio per me e per tutti quelli che pensano ancora che il compito principale della scuola dovrebbe essere quello di insegnare. Chi la pensa ancora così, si sbaglia di grosso. Nella scuola di oggi si chiede di tutto tranne che insegnare. E agli alunni si chiede di tutto tranne che imparare." Pubblichiamo questa lettera aperta inviata al Corriere della Sera da Marco Radaelli, 45 anni, professore di Storia e Filosofia in un Liceo Scientifico di Pavia, autore del libro Educare insegnando.
Sono un docente, e dopo vent’anni di carriera spesi a dare (e a sopportare) tutto per amore di ciò che amo ho capito che vorrei cambiare lavoro. Perché? Semplice: perché la scuola di oggi chiede figure di ogni tipo tranne che insegnanti. Dunque nella scuola di oggi non c’è più spazio per me e per tutti quelli che pensano ancora che il compito principale della scuola dovrebbe essere quello di insegnare. Chi la pensa ancora così, si sbaglia di grosso. Nella scuola di oggi si chiede di tutto tranne che insegnare. E agli alunni si chiede di tutto tranne che imparare. Di più: di anno in anno si moltiplicano gli ostacoli e i bastoni messi tra le ruote di chi vuole ancora fare con sincerità e semplicità questo mestiere.
Di essere insegnante, ad un insegnante, non lo chiede più nessuno. Oggi si vuole che un docente sia psicologo, psichiatra, psicoterapeuta, informatico, ingegnere, pedagogista. E anche, all’occorrenza, saltimbanco capace di rendere accattivante ogni lezione, o giullare in grado di accattivarsi la simpatia e la benevolenza degli studenti con effetti speciali e numeri da circo. Meglio ancora se si dimostra anche cieco. Soprattutto cieco. Soprattutto di fronte a quello che vede (errori, strafalcioni, frasi senza senso). Ma anche sordo, quando serve. E, mi raccomando, molto capace di non urtare in alcun modo la sensibilità dei piccoli pargoli. Non dire mai di no, non dare mai voti bassi, non mettere mai alcuna nota, non sottolineare errori da prima elementare quando si è in quinta superiore. Insomma, alla verità e al principio di realtà un docente deve sempre saper anteporre la bontà, il sorriso, la giustificazione.
Infine, ovviamente, un docente deve essere burocrate. Molto burocrate. Di quelli in stile sovietico, che non parlano, non discutono, non giudicano, non sollevano la testa. Di quelli che fanno quello che vien detto loro di fare pur di avere una vita tranquilla e lo stipendio assicurato. Se poi riesce anche a fare tutto questo senza disturbare nessuno (leggi: dando voti dal sei in su a chiunque, qualunque cosa faccia) allora la perfezione è raggiunta. I dati di ogni indagine danno capacità in picchiata nella comprensione di un testo anche semplice, limitatissime (per non dire meno che minime) capacità logico\matematiche, ridotte potenzialità linguistico\espressive. Eppure i promossi sono sempre di più, gli esami di riparazione sempre di meno, i maturati praticamente tutti.
In sostanza la scuola ci informa che siamo nel migliore dei mondi possibili, che peraltro migliora ogni anno. La bontà e l’inclusione hanno raggiunto livelli altissimi, e di certo incompatibili con il merito, la cultura e la crescita umana. La scuola di oggi fa della parola inclusività il grimaldello attraverso il quale rinchiudere chiunque nel recinto dell’ignoranza. Non proprio la migliore delle inclusività.
Oggi si è riempita la scuola con le più svariate e variopinte educazioni (a questo, a quest’altro, a quello, a quell’altro… a tutto e anche al contrario di tutto), nell’illusione che sia sufficiente chiamare qualcosa con il nome di “educazione” perché lo sia davvero. Si sono separati insomma l’insegnamento dall’educazione, pensando che questa possa cadere dall’albero, come una mela, sulla testa degli studenti, con qualche ora di corso, qualche progetto inserito qua e là, qualche lavoretto in cui si dimostra di aver ascoltato qualcosa. Il tutto a discapito delle ore di lezione, drasticamente diradate e ridotte a semplici (e fastidiosi) accessori. Tutti sono pronti a dire che per fare fronte all’emergenza educativa “la scuola deve fare questo, la scuola deve fare quest’altro”, scaricando di fatto tutta la responsabilità educativa solo su alcuni, come se l’educazione fosse una questione soltanto scolastica. Ad educare, però, è tutta un’aria che si respira, dentro e fuori dalla scuola.
È ora di allargare il recinto della responsabilità e di prendere coscienza che ad educare non sono solamente gli insegnanti, ma è tutto un contesto in cui la scuola è certamente chiamata a dare il proprio contributo – per quel che compete a lei – esattamente come tutti sono chiamati a dare il proprio. Per dirla con le parole di un proverbio: «Per crescere un bambino ci vuole un villaggio intero». La scuola può contribuire, ma non certo risolvere da sola i problemi della società, come invece ci si aspetta da lei. Tutti possono educare (o dis-educare) in ogni momento, in ogni luogo, ad ogni ora della giornata. È allora il momento di interrogarsi un po’ di più sull’aria che i ragazzi respirano fuori dalla scuola e su quello che il villaggio sta facendo per i suoi giovani, prima di puntare il dito sempre e solo sulla scuola. Su quale terreno li fa crescere? Che cosa dice ai ragazzi quando dà visibilità a modelli fondati sull’eccesso e sull’apparenza? Che cosa vuole insegnare ai giovani quando mette sotto i riflettori il successo facile come stile di vita vincente? Che cosa si pretende poi dalla scuola e dagli insegnanti, che ci pensino loro?
Tutti possono partecipare all’educazione dei giovani esattamente lì dove sono, facendo bene il proprio, senza sentire il bisogno di invadere la scuola per dire alla scuola quello che dovrebbe fare o di sentirsi in diritto di dire agli insegnanti come e cosa dovrebbero insegnare. E con quali risultati, poi? La scuola è stata inondata di proposte, corsi e progetti che l’hanno affossata, snaturandola dal suo vero e unico compito, che è quello di istruire, insegnare ed educare attraverso le discipline. E se ognuno iniziasse a fare il proprio, prima di dire agli altri che cosa dovrebbero fare?